Provare semplicemente ad ascoltare Lucio Battisti non è un impresa da poco. E non certo perché l'artista sia oggi demodé, o addirittura sorpassato. Quando si parla di lui, il tasso di emotività è sempre al di sopra del livello di guardia o di psicosi, come dimostra il giudizio tranchant e geniale proveniente da un commento ad Anima latina su Youtube: "A chi non piace [Lucio Battisti] stanno messi proprio male (anonimo)".
C'è un Battisti reale, con una discografia che vale la pena esplorare con attenzione, e c'è un Battisti nostro caro angelo, "sempre nei nostri cuori" come una squadra di calcio o come "gli irripetibili anni Settanta". Ingiudicabile. Inattaccabile. Tutti abbiamo in testa una heavy rotation proustiana dei suoi pezzi più classici che, se fatta partire con pensieri privati o parole conviviali, scatena sensazioni, ricordi, nostalgie. Questo a prescindere da un'effettiva presa di contatto con quelle sue canzoni, che ci pare superflua perché tanto le sappiamo a memoria.
In realtà, le sappiamo in modo confuso, lo stesso con cui la mattina si ricordano i sogni della notte. E se per caso proviamo a porre più attenzione, questa si focalizza sul già noto, perchè lì ci porta il cuore (oppure il fastidio, nel caso dei rari detrattori). Forse è per questo suo essere forever young, per sempre giovane, come Marilyn Monroe o Che Guevara che Battisti raramente viene affrontato per quel che è: un ottimo, sovente straordinario, musicista. Tanto è sempre lì, disponibile. Puoi occupartene seriamente domani. E domani non arriva mai.
Dunque, ciò che si prova a suggerire è una modalità di serena attenzione verso Battisti, verso il complesso della sua opera e verso il dettaglio delle sue canzoni. occorre solo svuotare la mente da sé stessi: così, le soddisfazioni saranno davvero tante, senza dover passare all'estremo opposto, all'analisi sociologico-musicologica (ce ne sono già tante in circolazione). Se poi chi ascolta è d'inclinazione esterofila, le sorprese saranno ancora maggiori.
Tanto per cominciare si scopre un'infinità di referenti e riferimenti insoliti. Non esistono, a quanto pare, molte notizie sul Lucio ascoltatore di musica altrui; anche perché i giornalisti suoi contemporanei erano interessati quasi solo alla notiziola scandalistica e mostravano minimo interesse per inezie come la musica. Battisti era un musicista poco o niente italiano; difficile dire se ne avesse la percezione o se la cosa gli importasse. Si potrebbe invece affermare che la sua era una diversità innata, a cui si aggiungeva la consapevolezza che il meglio e il nuovo stavano Oltremanica e Oltreoceano. A sorpresa questo lo aveva intuito Loretta Goggi, che nel 1970, presentando Mi ritorni in mente per il programma "Incontro con Lucio Battisti", afferma: "Il tuo modo di scrivere non è molto romano, direi piuttosto che sembra newyorkese".
Newyorkese magari no; Memphis o Chicago suonerebbe più appropriato dal punto di vista sonoro, ma la giovane Loretta non poteva saperlo. Si prenda, ad esempio, Un'avventura, presentata al Festival di Sanremo 1969. È un pezzo r'n'b con un potente riff fiatistico in stile Stax (l'arrangiamento è di Gian Piero Reverberi) e produzione "palla avanti e pedalare" che non c'entra nulla con il resto del materiale in concorso nella Città dei Fiori. Non a caso, Wilson Pickett, che al festival partecipa in coppia con Battisti, la canta in gran parte in inglese. Interessante è il fatto che sul lato B del singolo si trovi Non è Francesca, del tutto diversa: inizio in chiave folk orchestrale alla Donovan, poi progressioni bachiane dell'organo, sax e chitarre registrate alla rovescia (idea assai trendy all'epoca) nella coda di due minuti che è quasi un pezzo a parte.
Il gioco dell'internazionalità e dell'eclettismo potrebbe proseguire all'infinito. 7 e 40 guizza fra pop e r'n'b come facevano i Traffic. Quanto a Pensieri e parole, le due melodie che si spingono e sovrappongono non possono che ricordare Goodbye & Hello di Tim Buckley, per combinazione un altro che faceva scrivere i testi a un amico-paroliere, Larry Beckett.
Il caso più eclatante è però un altro. Si tratta di Eppur mi son scordato di te, scritta per la Formula 3. Un pezzo che Lucio interpreta per voce e chitarra acustica in occasione di una puntata di "Teatro 10", nel 1971. L'introduzione strumentale, introversa, sofferta è da bluesman del Delta (un bluesman in giacca e maglioncino dolcevita, peraltro). Poi arrivano le strofe strappate, smozzicate caricate di un qualcosa che il testo assolutamente non possiede. Infine il finale improvvisato, liberatorio. Devastante non è un aggettivo che si possa applicare sovente alla produzione pop italiana, ma qui è dovuto. Impazzisce persino il pubblico azzimato o finto-giovane in sala, travolto da questa cosa pervasiva e dal nome straniero: feeling. Una considerazione nasce spontanea. Chissà se Pierpaolo Pasolini vide l'esibizione; in caso affermativo avrebbe dovuto essere conquistato dalla sua primitività, dalla sua pura visceralità (buffo a dirsi Pasolini e Battisti nacquero lo stesso giorno, il 5 marzo).
Oltre a quest'internazionalità innata, o indotta, c'è un secondo elemento che l'ascolto sereno di cui si diceva mette in evidenza: quello del doppio Lucio Battisti. Lo spiega un altro personaggio della tv dei tempi eroici. Un attimo dopo la fine di quella strepitosa Eppur mi son scodato di te, Alberto Lupo, presentando la successiva Pensieri e parole (in playback, contrasto clamoroso) dice: "Adesso dobbiamo ritornare al Battisti che conosciamo [....], quello delle grandi orchestre, dei cori, degli arrangiamenti particolari". Anche "arrangiamenti particolari", per quanto suoni buffo, è un concetto importante, come si vedrà fra poco.
E questa è l'epoca della notorietà massima. Nel periodo fra il 1969 e il 1973 Battisti scrive benissimo; infila una serie di brani traboccanti di idee; occupa uno spazio ampio (e pericoloso) che ha ai due estremi Sanremo e il prog, con al centro i 'cantautori' in via di affermazione. Se poche sono le affinità con questi ultimi, ancora una volta i legami spirituali vanno cercati oltrefrontiera: i melodrammi in musica scritti da Jimmy Webb per Richard Harris, i capricci barocchi e sensuali di Serge Gainsbourg. Battisti infila le idee più audaci qua e là nei pezzi più noti, magari nelle parti conclusive o, appunto, negli "arrangiamenti particolari". Il mio canto libero ha due incisi da cui si potevano sviluppare belle canzoni a sé stanti. In Pensieri e parole echeggia un organo r'n'b improbabile ma credibile. A volte il risultato è aggraziato e conciliante, come nel finale di Mi ritorni in mente, ma nell'insieme c'è in Battisti un'ansia di esprimersi e sperimentare che lo affratella, con tre-quattro provinciali anni di ritardo al pop-rock anglo-americano. E se mai qualcuno pubblicasse le tracce solo strumentali dei pezzi dell'album-raccolta Emozioni (come accaduto per una recente riedizione di Pet Sounds dei Beach Boys), le sorprese sarebbero enormi. E non poco il fastidio di chi è interessato solo alla voce e alle parole.
C'è però una sensazione contrastante, che fa capo ancora una volta alla selvaggia Eppur mi son scordato di te. Il Battisti al massimo dell'ispirazione non vuole per forza spaccare tutto, o dare spazio a intuizioni inaudite. Rinuncia a essere una soltanto il bluesman di Poggio Bustone che fa meraviglie anche solo con voce e chitarra, un personaggio del tutto unico che forse avrebbe potuto cambiare ancor più profondamente la musica italiana. Insomma, Battisti si permette di essere solo abbastanza ardito perché sa di svettare scintillante sulle grigie paludi intorno. Più probabile una via di mezzo che ce lo fa immaginare in parte Prigione michelangiolesco incapace di liberarsi del tutto delle ganasce del decorativo, in parte ragazzaccio di paese che si fa beffe del belcanto ed è contento così.
Comincia comunque a tentare cose più estreme con l'album Anima latina del 1974. Un musicista 'leggero' italiano che pensa a un album come insieme organico (e non contenitore di singoli più riempitivi) era di certo cosa bizzarra, non parliamo poi di un concept album. Già Amore e non amore, con i suoi strumentali dai lunghi titoli ambientalisti, era stato un tentativo in tal senso, una parentesi che aveva faticato a trovare la via della pubblicazione (avvenuta infine nel '71). Un album vero e proprio era stato anche Il nostro caro angelo (1973), dai suoni salutarmente asciutti. Ispirato da una lunga permanenza in Sudamerica, Anima latina è un ottimo disco ancora una volta ricchissimo di idee, ma con poche melodie adatte al mercato a 45 giri. Non a caso, le dichiarazioni dell'autore sono sulla difensiva: "Un'operazione culturale, un esperimento e tale dovrà restare". Viene stroncato, poi riabilitato e infine incensato in modo al solito troppo acritico. L'idea più significativa sta nel missaggio a volume basso delle parole che in alcuni passaggi potrebbero essere in qualsiasi lingua (in Anonimo una delle poche parole comprensibili è "reggiseno"). Gli inserimenti degli strumenti latinoamericani sono efficaci e funzionano bene nell'accostamento al prog. Se il pezzo forte è Due mondi, con il suo epos primordiale, quello migliore è Gli uomini celesti che ricorda il Peter Hammill solista nella sua intensità sottotraccia.
La carriera dopo la seconda metà degli anni '70, è finalmente davvero cosmopolita quanto a luoghi, con registrazioni a Londra e a Los Angeles. C'è però un velo di opacità, un adeguamento alle tendenze del momento (funk, disco) con troppo distacco, quasi con disillusione. E, a proposito di distacco, a poco a poco Battisti scompare dalla vita pubblica, come Thomas Pynchon e J.D. Salinger, e come il secondo difende con rabbia la sua sfera privata. Poi incide, con testi di Pasquale Panella, i famosi-famigerati dischi impenetrabili come roccia. O come gomma, si potrebbe dire. Sono i dischi che regalano, soprattutto nell'approccio, l'ultimo referente straniero, Scott Walker, anche lui ex popstar problematica e quasi inavvicinabile.
Ecco dunque tracciato un ritratto del Lucio Battisti musicista italiano solo per sbaglio, per cui l'Italia fu forse prigione sonica. Lo dimostra anche la storia triste dell'album per il mercato anglosassone, Images, poche vendite nonostante un repertorio imbattibile. C'era ancora troppa Italia in quelle canzoni, in problematico inglese, ma nello stesso tempo, una collocazione geografica stretta non era possibile.
Lucio Battisti aveva superato molti confini e oggi le sue canzoni rimangono lì, a dimostrarlo e a farsi ascoltare senza staccare mai la spina dell'attenzione e della curiosità.
(Antonio Vivaldi - da Lucio Battisti Masters, 2017)
Comments