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LUCIO, IL NUMERO UNO | Alessandro Colombini

Aggiornamento: 7 set 2022


Partiamo dalla Numero Uno.

Fondammo la Numero Uno alla fine dei Sessanta io, Mogol e suo padre, Mariano Rapetti. Eravamo scontenti del rapporto con la Dischi Ricordi. Venne da subito coinvolto anche Lucio, che era già un autore molto apprezzato: aveva scritto musiche per i Ribelli (Per una lira), per Mina, e stava per diventare un interprete famoso.

L'etichetta era il tentativo di gestire da soli un po' del patrimonio su cui stavamo lavorando: Mogol scriveva testi di qualità, io arrangiavo e producevo, la mia base ritmica erano i Quelli, futura PFM. Ci sentivamo affini alla RCA, quella di Ennio Melis, uno dei migliori discografici di tutti i tempi, che finì per distribuirci.


Lucio aveva ancora un contratto da onorare con la Ricordi.

Infatti, continuò fino al '72 a incidere per Ricordi, anche se di fatto era al nostro fianco. Io nel frattempo ero già uscito dalla Numero Uno, ero diventato indipendente, e Battisti mi era in qualche modo subentrato nella società. In quegli anni, fra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta, Lucio stava facendo il salto di qualità, stava passando da autore a interprete dei pezzi che scriveva, sempre più importante e significativo.


Quale è stata la forza del Battisti che canta e suona le sue canzoni, dopo averle affidate ad altri?

La voce, in parte. Per essere numeri uno del canto nel pop, l'ho detto altre volte, non bisogna averlo studiato a scuola, anzi. È più importante il carattere. Prendiamo Edoardo Bennato, con cui ho lavorato a lungo: riuscire a farlo cantare in maniera accettabile per le registrazioni, senza che suonasse la chitarra, all'inizio, era faticosissimo. Inventammo un marchingegno che faceva entrare la sua voce dappertutto, che sovrastava la sua dodici corde, ci lavorammo molto. Lucio per qualcuno forse non era un campione di intonazione, ma si ispirava a Sam & Dave, aveva un fraseggio selvaggio, soul, che era tremendamente efficace. Con un francobollo come i testi di Mogol, uno con cui ho lavorato su originali di Procol Harum o David Bowie, per dire, la busta con le sue musiche e la sua voce è stata spedita ed è arrivata ovunque.


Una voce nera, quindi.

Si, timbri per cui in Italia si nutriva una certa diffidenza. Il mio compito fu unire questi timbri con un gusto riconoscibile. Lucio era un campione, era molto curioso, non amava ripetersi e riuscì a andare oltre ogni paragone. In Italia, a fare cose del genere [se no sembra abbia un valore conclusivo: In Italia, dunque, c'era solo lui...], c'era solo lui. Se non bastasse, i pezzi di Battisti erano rivoluzionari, anche nelle loro partiture: tempi diseguali, fuori dal canone, strumentazioni mai prefissate, un uso meticoloso degli studi di registrazione.


Come si lavorava con lui, in sala di incisione?

Si lavorava soprattutto prestando grande attenzione al tipo di canzone che veniva affrontata. Successe con Balla Linda, nel '68, un'occasione d'oro, che non vendette subito moltissime copie (comunque più di centomila, che, per la cronaca, oggi sarebbe una cifra enorme) ma abbastanza da accendere l'attenzione. Da quel momento possiamo dire che i pezzi sono andati avanti quasi da soli, nella considerazione del pubblico.


Dov'è la differenza di questi pezzi, rispetto alla produzione dell'epoca?

Nella loro spontaneità, inarrivabile. E nel fatto che contengono incredibili intuizioni ritmiche. Lo ripeto, al di là di certi brutti luoghi comuni sul suo modo di cantare, lui è stato un bravissimo interprete. Coglieva sempre il modo giusto di "decifrare" un pezzo.

Il tempo di morire, quando la incidemmo per la prima volta, ancora senza il testo di Mogol, aveva già tutti i germi del successo, l'emozione vocale, la chitarra "fendente" e tutto il resto.


Era davvero timido, Lucio?

Non era timido. Era un ragazzo allegro, che amava ridere e scherzare. Arrivava dalla provincia, dove tante volte nascono le cose migliori, e aveva una semplicità che magari non era troppo in sintonia con l'affettazione del mondo dello spettacolo. Il modo per fare conoscenza con un altro era imbracciare una chitarra e suonare per lui: una spontaneità lontanissima da ogni posa. Aveva poi una professionalità e una capacità di ascolto difficile da ritrovare, unita all'intuito sugli arrangiamenti, che sembravano uscire già pronti per essere suonati.

Quando finimmo di lavorare assieme cominciò ad affidarsi ai produttori inglesi. Anche in questo, è stato diverso da tutti gli altri.


(Alessandro Colombini - da Lucio Battisti Masters, 2017)

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