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LUCIO BATTISTI | IL MIO CANTO LIBERO Discografia commentata di Luciano Ceri

Aggiornamento: 11 ott 2021


Due long-playng in un anno, ognuno con materiale praticamente inedito, (se si escludono le riprese di E penso a te e L'aquila) costituivano una invidiabile performance per qualsiasi artista, e Battisti non solo riuscì nel suo intento ma raggiunse anche, con Il mio canto libero, uno dei picchi più significativo della sua carriera, soprattutto per la grande compattezza che il disco immediatamente trasmetteva all'ascolto: un feeling particolare che accumunava tutti i brani, pur nella loro significativa diversità. Merito di diversi fattori naturalmente, la qualità delle canzoni innanzitutto, poi una produzione quanto mai riuscita, la ricchezza dei contributi dei singoli musicisti (e sono in tanti), la consueta felice mano di Reverberi nella scrittura degli archi, e infine la buona vena di Mogol, che adatta forse più compiutamente che in altre situazioni le sue parole alla musica di Battisti, introducendo anche, in questo disco, una vena ecologica e anticonsumista destinata a riapparire spesso in seguito.


Il mio canto libero diventa naturalmente anche il singolo trainante, immediatamente identificabile per la frase iniziale di chitarra e soprattutto per la linea melodica del primo verso cantato, che si pone come riferimento sonoro di tutta la canzone, esaltato poi dalla interpretazione dei fiati. La struttura della canzone è invertita rispetto a Pensieri e parole (da cui riprende comunque lo spunto delle due voci in contrappunto, se pure limitato ad una sola strofa) e I giardini di marzo, le due ballate alle quali possiamo avvicinarla come capacità di impatto e come canzone guida dell'intero disco: in questo caso infatti è la strofa a dispiegarsi ariosamente, mentre l'inciso introduce un passaggio musicale più introspettivo, costruito proprio in funzione del rilancio sonoro della strofa.


Molto interessante musicalmente anche il retro del singolo, Confusione, caratterizzato profondamente dalla chitarra di Alberto Radius e dalla singolare scansione metrica a cui è costretto Battisti dalla ripetuta irregolarità sillabica del testo di Mogol, che in alcuni punti sfiora lo scioglilingua. Confusione si caratterizza anche per il singolare connubio, che si verifica nel ritornello, tra la chitarra elettrica di Radius, le campane sarde di Reginaldo Ettore e il guiro e la chitarra hawaiana suonati da Battisti, ed in generale per un'ottima produzione, il cui ultimo tocco felice sono le tre note di fiati che concludono il brano.


Il resto dell'album non è da meno, con almeno due canzoni che si collocano ai primi posti dell'intero song-book battistiano. La luce dell'est si apre con una bella introduzione d'archi scritta da Reverberi che suggerisce con estrema suggestione l'ambiente naturale che fa da sfondo alla canzone - un paesaggio brumoso di una radura improvvisamente illuminata dal sole - per poi distendersi armoniosamente in un ritornello di grande melodicità; e questa struttura si ripete anche nella seconda parte, con un salto di tonalità che contribuisce ad aumentare la corposità armonica dell'intero brano. Ancora due voci dialoganti compaiono in Gente per bene e gente per male, anche se l'interlocutore di Battisti sono in questo caso due voci femminili particolarmente indisponenti e che finiscono per appesantire non poco la canzone, che invece prende quota nel finale grazie anche al plurimo intervento di Reverberi all'organo, al pianoforte e al minimoog.


Le vicende della lavorazione di Luci-ah sono ampiamente illustrate nelle varie testimonianze, dalle quali si arguisce anche perché non compare nei crediti il nome di Vince Tempera, che suona quel pianoforte dal timbro così particolare. Mogol si divertì molto a tratteggiare il personaggio femminile protagonista della canzone, una figura di donna anticonformista e spregiudicata che movimenta non poco la tranquilla atmosfera di un piccolo paese.


Dovendo scegliere all'interno del suo repertorio Battisti si rivolge ancora una volta ad una canzone che aveva scritto per Lauzi, L'aquila, per realizzare la quale si pone di fronte al pubblico nello stesso modo in cui si pose davanti a Lauzi quando per la prima volta gli fece ascoltare la canzone, vale a dire semplicemente con voce e chitarra, dandoci così ampiamente l'idea di come dovevano suonare le sue canzoni appena scritte. Nella terza strofa l'atmosfera tesa e partecipata che il brano suggerisce viene ancora di più accentuata dall'ingresso degli archi e dall'uso di una serie di echi che amplificano le risonanze della voce, mentre per tutta la canzone Battisti replica il movimento ritmico che aveva suonato con le tumbe nella versione di Lauzi colpendo semplicemente la cassa della chitarra.


Vento nel vento ci presenta un duetto tra Battisti al pianoforte e Gabriele Lorenzi della Formula 3 all'Hammond, prima dell'ingresso della ritmica e della sezione di archi, che inizia con una bella frase melodica (citata molti anni dopo da Francesco De Gregori in La leva calcistica della classe '68) per poi spaziare in una parte musicale che dopo un ampio fraseggio riconduce la canzone alla parte cantata.


Molto curata anche la costruzione di Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi, con una strofa in minore molto lunga e articolata che si snoda a lungo prima di sfociare in un classico ritornello in maggiore, sottolineato dal corposo volume delle chitarre elettriche, alle quali Bruno Malasoma, il tecnico del suono, riesce a dare un suono molto americano (così come aveva fatto anche in La luce dell'Est), e dall'incalzare degli archi, mentre la voce precede per terze nello sviluppo della linea melodica.

Tra i musicisti che collaborano all'album, oltre al consueto entourage battistiano (oltre a quelli già citati, Mario Lavezzi, Gianni Dall'Aglio, Massimo Luca, Gigi Mucciolo) c'è anche il nome di Guido Guglielminetti, al basso in tutto l'album tranne che in La luce dell'Est (Angel Salvador) e in Gente per bene e gente per male (Bruno Longhi), un musicista che nel corso del tempo ritroveremo al fianco di Ivano Fossati.


(Tratto da "Pensieri e parole" di Luciano Ceri, 1996)



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