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LUCIO BATTISTI | FATTI UN PIANTO (di Alexandre Ciarla)


Nel consumismo degli anni Ottanta acquistare un disco di canzoni pop è come andare al supermercato per comprare delle emozioni. Di ritorno a casa dalla spesa l'ascoltatore non ha che da mettere il disco sul piatto per farsi un bel pianto. Il nuovo Battisti è tornato per dire al suo pubblico che anche le canzoni sono merci come tutte le altre. In Fatti un pianto i prodotti alimentari della grande distribuzione diventano metafore delle emozioni spicce suscitate dalle canzoni sentimentali. Commuoversi all'ascolto di un ellepì è altrettanto ridicolo che sentirsi intenerito dall'apertura di un barattolo di minestra: "fatti un pianto", dice il cantante all'ascoltatrice.


E allora ecco che dall'alto del suo monte ventoso dei sentimenti dal quale gode di un ampia visione privilegiata, il cantante sfoglia un rosa ricettario come un libro che raccoglie una serie di ricette amorose, una raccolta di norme e di consigli pratici sul comportamento sentimentale. Proprio quel tipo di consigli che per un decennio e più Battisti ha dispensato al suo pubblico attraverso le sue canzoni scritte dal Gran Mogol della canzone italiana: «Dal monte ventoso dei miei sentimenti / sfoglio all'aria un rosa ricettario / l'inizio è già indiziario: "Lei sciolse / e poi si tolse lo chignon"». Il cantante inizia a declamare il testo della canzone e dai primi versi subito si intuisce che ci saranno lacrime da versare.


Il gioco di parole con l'acconciatura è evidente. Lo chignon consiste nel raccogliere i capelli in modo da formare una "cipolla" a metà della nuca, di conseguenza, sciogliendosi lo chignon è come se la protagonista sfogliasse una metaforica cipolla per farsi subito un bel pianto: «E calva d'amore, lustro sguardo da biliardo / boccia sul tappeto il suo pallino / È "La stecca del peccato" / C'è tanta nuda verità / Fatti un pianto (o...) / Fatti un pianto (o...)». L'inizio in effetti era indiziario: ci sarà da piangere; e infatti gli occhi sono già lustri come bocce da biliardo. Il sentimentalismo per lei è un vero chiodo fisso: un pallino; o detto altrimenti, con un po' di crudezza (nuda verità), l'oggetto del peccato è la stecca.


Con lo stesso tono irriverente del disco del 1983 dove la metafora della borsa della spesa coglieva l'aspetto commerciale del mondo della canzone, in questi versi i sentimenti e gli stati d'animo degli ascoltatori si fanno a fette e si vendono all'etto come ammasso zuccheroso di marmellata sentimentale: «Da un chilo di affetti un etto di marmellata / Se sbatti un addio c'esce un'omelette / Le cosce dorate van fritte / Coi sorrisi fai croquettes». Se nei momenti tristi degli addii si rischia sempre di commettere un errore irrimediabile o come si usa dire di "fare la frittata", anche i momenti felici non sono da meno: le gioie del pubblico sono dozzinali quanto le crocchette surgelate a forma di mezza luna o di un sorriso appunto che nella seconda metà degli anni Ottanta venivano massicciamente sponsorizzate con stupidi slogan.


Panella e Battisti si prendono gioco della emotività dell'ascoltatore. Con un lessico da ricettario di cucina ironizzano sulla loro capacità di indurre il pianto a comando con parole d'amore. Strizzandosi metaforicamente il cuore come per condire gli occhi dell'ascoltatore con alcune lacrime di limone, come si legge appunto nei ricettari: «E tu dici ancora che non parlo d'amore / Batte in me un limone giallo basta spremerlo / Con lacrime salate agli occhi tuoi / ben condita amata t'ho».


Si dice spesso che "la verità brucia come il limone negli occhi" ma qui si tratta solo di finzione. Il modo di dire vale nella realtà ma nella canzone è l'esatto contrario: le parole di una canzone d'amore sono false come le lacrime versate per affettare una cipolla. Non è la verità a bruciare negli occhi ma le parole sdolcinate messe lì a bell'apposta e costruite a regola d'arte per ottenere lo stesso risultato su ogni ascoltatore. Per colpire la massa ci vuole un procedimento meccanico e facilmente riproducibile a poco prezzo su larga scala. Un gesto semplice e privo di alcun connotato emotivo come la reazione istintiva dell'occhio ad alcune gocce di limone.


Un cantante non racconta mai una vita reale, fa soltanto smercio di emozioni. Anche Battisti è un imbonitore che invita il suo pubblico a commuoversi fino a placare la sua sete di lacrime: «Dai piangete (o...) / Dai cantate (o...) / E dai che ne ho sete». Sono lacrime sciocche e vacue quelle che scendono giù dagli occhi di un'ascoltatrice eppure fanno del cantante una gallina dalle uova d'oro: «Parole d'amore / Grosse lacrime sciocche / sono uova alla coque / E dai e dai (o...) / Fatti un pianto». Nel repertorio simbolico del Panella l'uovo rappresenta la canzone: Tre anni prima, all'epoca di "Oh! Era ora" il disco era a forma scura di frittata e il cantante era solo un anatra tremante che doveva covare l'uovo come una quaglia (spremendosi su una sedia doveva fare l'uovo). Poi ci fu l'interprete del Gabbianone che osservava se stesso mentre si cuoce un uovo con la stessa facilità con la quale si poggia un disco sul piatto. Infine, tre anni dopo, le parole d'amore di una canzone sono come un uovo lesso ma con il tuorlo liquido: il cuore tenero delle liriche sentimentali.


Dopo tutti questi pianti che arricchiscono il mercato discografico i lacrimoni dell'ascoltatrice richiedono fazzoletti enormi, fogli grandi quanto lenzuola da legare assieme per far fuggire un amante perduto. Calatosi per fuggire via da lei come fuggirebbe da una prigione: «Lacrimoni che sono lenzuola (o...) / Da strappare da calare giù / Fatti un pianto / E lì perdutamente / qualcuno che ti sfugga / oche salga su». Il messaggio è dissacrante. Tutte le canzoni sono un fatuo e non serve a nulla piangere per riavere l'amore perduto. Sono solo favole eppure c'è chi ci prova lo stesso: «Per intanto qualche vento / qualche tentativo fa».


(di Alexandre Ciarla - Da Don Giovanni a Hegel - 2015)




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